Dal fondatore Hafiz Saeed Khan al “manager” Shahab al Muhajir Tutti i leader di Isis-K-Corriere.it

di Guido Olimpio

Dal 2016, uno dopo l’altro, i vari reggenti sono stati uccisi dal cielo

Shahab al Muhajir sa che lo vogliono morto. E il raid americano di ieri che ha cremato due membri del Stato Islamico dell’Afghanistan nella zona di Jalalabad gli ricordava due cose. Il primo: i droni si nascondono ancora. La seconda: il gioco entra in una nuova fase.

Il Pentagono ha promesso che le incursioni continueranno per vendicare la strage di Kabul, per esercitare pressioni anche pesanti (Osama temeva la scioperi), per inviare segnali. pertanto al Muhajir, attuale leader della fazione, è in cima alla lista degli obiettivi. Come altri, potrebbe essere nascosto nella provincia di Nangahar, al confine con il Pakistan. O forse si è rifugiato più a ovest, ma anche oltre confine. Deve stare attento.

La storia del movimento è strettamente legata alle vicende del paese vicino. L’avanguardia dell’ISIS-K è venuta da fuori per sfuggire all’offensiva dell’esercito di Islamabad. Era guidato da una mezza dozzina di ex talebani pakistani, attivisti delle repubbliche dell’Asia centrale, volontari locali e qaedisti. La colonia – affermano alcuni analisti – è cresciuta anche grazie alla tolleranza dell’intelligence di Kabul, gli afgani pensavano di poterla utilizzare nel duello con il Pakistan. Ne hanno approfittato, erano bassi e poi hanno alzato la testa reclutando, estorcendo, urtando tutti. Mullah inclusi.

Il nucleo dichiarò fedeltà al Califfo, ricevendo in cambio sostegno e alcuni dipinti. Il link ha poi favorito la catena di finanziamento alimentata dallo stesso Stato Islamico, i donatori del Golfo Persico (Qatar, Arabia Saudita) e l’imposizione di tasse. Crescita politica seguita da una crescita militare-terroristica, con attacchi sempre più duri. Con un aspetto chiave: una linea jihadista transnazionale.

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La “provincia del Khorasan” – per designare non solo l’Afghanistan – è diventata il bersaglio dei guerriglieri talebani, degli Stati Uniti e infine del governo di Kabul. Era inevitabile che avrebbe pagato un impegno. Il fondatore, il primo “emiro”, Hafiz Saeed Khan è stato colpito da un missile nel luglio 2016. Stessa fine per coloro che hanno preso il suo posto: Abdul Hasib, Abu Sayed, Abu Saad Orakzai. Poi è stata la volta di un portavoce e di alcuni comprimari. Sconfitte importanti, ma non decisive. La guida ha trasmesso ad al Muhajir, forse di origine siriana o comunque mediorientale, un profilo simile di una coppia di collaboratori. È come se il califfo, ha osservato l’esperto Hassan Hassan, avesse mandato il suo manager a coordinare la filiale. Scelta per sottolineare il legame ideologico e operativo. La promozione è stata ripagata con massacri, attentati suicidi, attacchi alle carceri, percosse ad altre comunità etniche.

Distruggi vite, esaspera le tensioni, ti offri come punto di riferimento per i combattenti attratti dall’idea di uno scontro feroce, dai terroristi in pista con le rispettive organizzazioni, ma anche da migliori stipendi. I rapporti dicono 400-800 dollari al mese, più un solido risarcimento per le famiglie dei martiri. Aspetti, questi, mai secondari. Fattore umano, questioni personali, ideologia “vincente” diventano un formidabile propellente per un dispositivo in movimento.

Gli Stati Uniti ei talebani cercheranno di opporvisi per neutralizzare i leader, i facilitatori di attentati, i possibili portavoce. Azione che richiede una buona informazione. Perché i ricercati si trovano in zone remote, tra campagna e collina dove possono acquistare complicità. E altri dormono nelle città. In questa fase, la cellula che attiva l’uomo bomba in un centro urbano è sicuramente causa di un gran numero di vittime th l’impatto della propaganda aumenta. La preda diventa un cacciatore, una parodia dell’avversario che lo insegue, fissa il tempo.

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La sfida dello Stato Islamico potrebbe cambiare l’agenda di Joe Biden per porre fine all’uso dei droni. La Casa Bianca voleva limitarne l’uso assumendo un controllo più stretto, ha detto un team a uno studio durato sette mesi, ma ora sarebbe pronta a concedere maggiore autonomia ai comandi che seguono i fronti afghano e somalo. Un esame rivela il New York Times, imposto da esigenze operative. Una conferma di un principio ricordato da un commentatore: “Nessuna guerra finisce finché il nemico non dice che è finita”.

28 agosto 2021 (modificato il 28 agosto 2021 | 23:13)

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